Pane e Fame
La fame, primum movens biologico, ma anche “miserabile malattia” sociale, anticamera della morte, la più stretta alleata delle malattie epidemiche, proprie delle società arrivate alla fase dell’organizzazione statale, che lasciavano tuttavia irresponsabilmente degradare vaste sacche umane sovraffollate e povere.[1] Il popolo inferocito dalla fame è quel popolo di rivoltosi del Manzoni, che saccheggiano il forno detto “delle grucce” per l’aumento della tassa sul pane istituita dal governatore. Tempo di carestia, di miseria e soprattutto di fame, che fa esplodere la folla arrabbiata, che si riversa nelle strade ad accaparrare pagnotte di pane nel più totale scompiglio. Due soggetti principali manzoniani, la folla ed il pane, la gente, gli uomini affamati ed il pane che sfama.[1]
Il pane è il prodotto umano per antonomasia, il minimo vitale della sussistenza umana dell’uomo civilizzato, è la frontiera dell’umanità.
Omero definisce i mortali mangiatori di pane, distinguendoli dalle bestie, dai bruti, la cui alimentazione non ha nulla di civile. E definisce Polifemo, ciclope solitario, non civilizzato, che si ingozza della carne dei compagni di Ulisse, ingoiandoli vivi. Mentre i greci gente civilizzata, vive in comunità e nella più costruttiva cooperazione. Ed è nel lavoro comunitario, nella collaborazione di gruppo che l’uomo si distingue dalla bestia, coltivando i campi di grano, producendo farine, che gli stessi greci raffinavano in farine bianche di cui era fatto il loro pane, pane di gente civilizzata, raffinata.
Pare che i greci furono i principali fautori della produzione di pane fatto con farine bianche, simbolo di evoluzione gastronomica e ricercata bontà della tavola.
Nella Roma imperiale, dove il pane entrò nell’uso quotidiano soltanto verso la fine del periodo della Repubblica intorno al 168 a.C., furono proprio i greci gli abili panettieri che producevano il pane destinato alla popolazione dell’Urbe. Conquistati i greci, i romani scoprirono il pane di frumento lievitato, che a confronto con il loro pane di farine di polenta di farro e farina d’orzo, era soffice e morbido.
I fornai greci, condotti a Roma come schiavi, lavoravano l’impasto di notte per poter fornire pane fresco e fragrante la mattina, pane che doveva essere ben cotto, pena non solo il risarcimento da parte del fornaio, ma questi era tenuto a pagare anche una specie di ammenda in denaro.
La Grecia, che non aveva molta fortuna nella coltivazione del grano a causa del clima, fornì quindi a Roma provetti fornai che utilizzavano il prezioso grano proveniente dall’Egitto, terra molto fertile, grazie al limo, materiale fangoso, rilasciato lungo le terre del Nilo, potente fertilizzante per la coltivazione del frumento.
Il forno era di argilla, dalla forma caratteristica a cono, diviso in due parti, la parte inferiore dove ardeva il fuoco e nella parte superiore cuoceva la pasta lievitata che diventava pane.
Nell’Impero romano, popolo di grande civiltà, il pane aveva un significato simbolico rilevante. Era un elemento base nella nutrizione del popolo, tanto da rientrare nell’annona, la politica adottata dall’Impero degli approvvigionamenti alimentari ed insieme delle derrate che assicurava alle grandi masse della popolazione la porzione giornaliera gratuita. [3]
Nell’Urbe imperiale proliferarono man mano le botteghe dei mugnai per lo smercio del pane ed in seguito le botteghe dei fornai panettieri, che si riunirono in corporazioni sotto l’impero di Traiano e fornivano pane a tutta la città. Il mestiere del fornaio era molto ambito e richiedeva un lungo tirocinio come garzone. Un fornaio, quindi, poteva anche fare fortuna, come accadde, per esempio, al liberto Marco Virgilio Eurisace , il cui sepolcro, a Porta Maggiore, “racconta”, nei rilievi del fregio, le fasi della panificazione: dalla macinatura e setacciatura della farina, all’impasto, alla fabbricazione e cottura al forno dei pani. Un monumento particolare per celebrare una delle professioni più antiche e popolari.
Non si pensi che i fornai usavano fare un solo tipo di pane. I pani erano tanti e dai molti gusti e proprio come succede oggi, speciali. Plinio ci parla del panis adipatus, una sorta di pasta bianca ben lievitata, intrisa di lardo e pancetta. Panis Siligeneo Flore, pane bianco fatto con la farina del Triticum Silicum, un grano tenero, considerato il miglior pane che si potesse trovare in commercio. Pare che di questo pane fosse ghiotto Plinio il Vecchio. E non poteva mancare il panis militaris, destinato ai soldati ed il panis nauticus, destinato ai marinai, nonché il nero panis plebeius, per i poveri e il confusaneus, pane molto nutriente destinato agli atleti e gladiatori, mentre nelle bisacce dei soldati non mancava mai il pane castrensis. “Panem et circenses”, frase di Giovenale, dimostra quanto i Romani dessero importanza al pane, per loro elemento preziosissimo ed essenziale per il popolo. Pane che nelle sue variegate forme, gusti e destinazioni, rifletteva una divisione rigidamente classista della società.
[1] Il Pane selvaggio, Piero Camporesi, Garzanti, 2004, pag. 29
2 Anfora greca per il trasporto del grano a Roma
[3] [1] Il Sarcofago dell’Annona, apprezzato capolavoro rinvenuto nel primo tratto dell’antica via Latina, datato intorno al 270/80 d. C., l’indomani della grave crisi militare e politica della cosiddetta “anarchia militare”. Ai due estremi del sarcofago figurano due personificazioni: l’Africa, principale provincia frumentaria, con un copricapo a testa di elefante e le spighe in mano, e Portus, il bacino attrezzato a nord di Ostia dove approdavano le “onerarie” che trasferivano il grano a Roma.
Commenti recenti