L’america dell’Intercultura
Uno sguardo all’ Intercultura in America
Riflessioni sui processi migratori oltre oceano dal XX sec. ad oggi
“Datemi le vostre stanche, povere e confuse genti che anelano a respirare la libertà”, recita l’iscrizione sulla Statua della Libertà. Il mondo ha accolto l’invito e ha così contribuito all’espansione, alla crescita e al dinamismo, con ondate di emigranti oppressi, ma spesso ambiziosi provenienti dall’Europa, dalla Cina, dal Sud-est asiatico, dall’America centrale, da ogni angolo della terra. L’immigrazione è la caratteristica precipua della storia e dell’identità degli USA, ma parlare solo di ‘paese d’immigrazione’ significa non rendere giustizia ai nativi americani (che ci sono sempre stati) e agli schiavi afroamericani (che ci sono arrivati contro la loro volontà).
A volte si dimentica la complessità delle etnie degli USA, perlomeno finché non si guardano le statistiche e si scopre che Los Angeles è per numero di abitanti la seconda città di vari stati latino-americani, o che ci sono dieci volte più irlandesi qui che in Irlanda, o che metà della popolazione di Miami è ispanica. Con una composizione così eterogenea, stupisce vedere tanto spesso xenofobia e provincialismo. Gli indiani e i neri dovrebbero ormai aver scampato il pericolo, ma gli ebrei, i messicani, gli asiatici e gli arabi sono ancora oggetto di discriminazioni e di pregiudizi.
Il vecchio concetto di ‘melting pot’ – crogiolo in cui le varie culture si fondono e si mescolano – è stato sostituito negli ultimi trent’anni da una nuova idea di ‘salad bowl’ – un’insalatiera nella quale ogni ingrediente contribuisce a formare il piatto, ma conserva l’odore e il sapore originario; non tutti gli immigrati, infatti, aspirano a conformarsi alle norme culturali e sociali WASP (acronimo di ‘White Anglo-Saxon Protestant’, con il quale si identifica l’americano originario, di pelle chiara e discendente dai coloni inglesi). Molti gruppi hanno cominciato a voler sottolineare la loro specificità e si sente sempre più spesso parlare di argomenti scottanti, come per esempio di ‘tribalizzazione’. Nel 1992 le tensioni razziali sono sfociate nella violenza, quando furono assolti i poliziotti ripresi con la videocamera mentre massacravano Rodney King; nel 1997 il processo per diffamazione a Tawana Brawley e ai suoi avvocati ha acceso antagonismi razziali che stavano covando da almeno un decennio.
La costituzione americana garantisce la libertà di culto. La borghesia e la classe dirigente sono tradizionalmente protestanti, mentre italiani, polacchi e irlandesi sono da sempre i paladini del cattolicesimo. Ci sono cinque milioni di ebrei che, grazie al loro talento nell’arte, negli affari e nelle scienze, hanno dato all’America molto più di quanto il loro numero non faccia pensare. Tutte le religioni del mondo sono presenti negli USA, dove non mancano confessioni autoctone, come i testimoni di Geova, gli scientisti e i mormoni. I nuovi culti hanno diversi seguaci e a volte sono piuttosto sconsigliabili: chiari esempi sono Charlie Manson, Jim Jones e i militanti davidiani.
La religione ha acquisito negli USA un potere sempre maggiore: Dio, la famiglia e il moralismo borghese hanno dato origine a un fondamentalismo cristiano di destra, che ha avuto grande successo con le trasmissioni televisive evangeliche. L’aborto, la musica rock, le ragazze madri, gli omosessuali, la teoria dell’evoluzionismo sono state duramente attaccate dalla destra politico-religiosa, una lobby con eccessiva influenza durante le amministrazioni repubblicane di Reagan e di Bush.
Non confidate sulla vostra conoscenza dell’inglese, perché, come dice la canzone ‘alcuni dicono tomayto, altri tomahto’. L’inglese americano ha diversi accenti regionali, che possono risultare più o meno intelligibili: i newyorkesi hanno l’inconfondibile parlata nasale, i californiani strascicano le parole e usano un’infinità di slang da spiaggia, al sud parlano a rallentatore, i neri non li capisce nessuno. Lo spagnolo è lingua ufficiale in alcune zone della California meridionale, del New Mexico, del Texas e a Miami. Ci sono circa 400.000 americani che parlano dialetti indiani e 375.000 che parlano yiddish. La variante americana ha dato nuove parole alla lingua inglese, come ‘egghead’ (calvo, pelato, letteralmente ‘testa d’uovo’) o ‘nerd’ (scemo).
Gli indiani d’America erano ottimi fabbricatori di maschere, amuleti, gioielli, vasellame, cesti, tessuti, scudi, borse, totem; i materiali più comuni erano: cuoio greggio, pelle di daino, perline, avorio, pietra, legno. I motivi e le decorazioni erano astratti e simbolici e non seguivano realismo né prospettiva. Questi prodotti non venivano considerati pezzi d’arte, come la intendiamo noi, ma piuttosto oggetti destinati a funzionale uso quotidiano o rituale. Gli americani normalmente li considerano chincaglierie di poco valore o, se sono esposti in qualche museo, esempi di arte ‘primitiva’. Oggi negli USA si vendono ovunque tessuti, argenti, oggetti vari, ma ormai è diventato solo un business.
La cultura americana moderna è composta da cultura di massa e culto della celebrità. Gli ingredienti principali sono abilità nel marketing, tecnologia delle comunicazioni, produzione di massa. Radio, televisione, musica, juke-box, cinema, TV via cavo: tutto questo gli americani l’hanno o inventato o prodotto su larga scala e poi distribuito in modo capillare a prezzi accessibili a tutti, contribuendo così a formare una cultura incentrata sui modelli WASP e una sorta di unione nazionale basata sui consumi. La poetica della multi-promozione prevede, per esempio, che Steven Spielberg fa un sogno, lo si trasforma in videogioco, in gelato, in gadget offerto con l’hamburger e infine in film. Stessa cosa succede per la musica e le immagini dei ghetti metropolitani: dalla strada a MTV, al piedistallo a NikeTown. La multi-promozione permette anche di trasformare attori in politici, cantanti in filosofi e top model in ospiti di talk show.
Se fino alla fine del XIX secolo l’essenza degli USA era da ricercare nella religione e nella politica, nel XX secolo l’essenza la si ritrova nel cinema e nella televisione. È quasi dall’inizio del secolo che Hollywood traspone su celluloide tutti i sogni e gli incubi degli americani, e i film sono diventati l’inconscio collettivo di un paese intero, se non del mondo. Negli anni ’50 Hollywood subì un duro colpo a causa della televisione, ma poi i due mondi hanno imparato a convivere e a trarre reciproci vantaggi. La distribuzione universale dei prodotti cinematografici e televisivi americani ha influenzato così a fondo la percezione degli USA, che in ogni parte del mondo si pensa di conoscere le strade di New York o le spiagge di Los Angeles come le proprie tasche. Dappertutto i palinsesti sono dominati da soap opera, telefilm, sitcom; nelle sale di ogni paese si trasmettono film americani, d’azione, sentimentali, thriller o comici che siano – con grande disappunto di chi vorrebbe stimolare la creazione di prodotti culturali del proprio paese. La televisione è la vera vetrina d’America: personaggi famosi discutono di peso, di assuefazioni, di come un fallimento sia in realtà un successo, accompagnati da una folta schiera di psichiatri, psicologi, sociologi.
La musica americana è la più commercializzata del mondo ed è dominata dalla politica delle etichette, ma anche il pop e il rock indipendenti hanno un ruolo fondamentale nel panorama musicale americano e mondiale. Enorme è stata l’influenza dei neri, i canti di lavoro degli schiavi del sud hanno dato origine al blues, un genere che racchiude in sé tutta l’esperienza degli afro-americani. All’inizio del XX nacque a New Orleans il jazz, un genere sincopato che univa ragtime e blues, inventato da musicisti autodidatti che usavano gli strumenti rimasti dalla guerra ispano-americana di Cuba.
Un capitolo importante della storia della musica commerciale riguarda due uomini d’affari bianchi che assoldavano musicisti neri, perché suonassero e incidessero per il pubblico bianco. L’evento più importante, però, fu il successo di Elvis Presley; quando Elvis cominciò a dimenare i fianchi e a muoversi come un nero, i giovani bianchi capirono che potevano riempirsi di borchie anche loro: nacque l’era del rock’n’roll. Il rap esprime il suono dei ghetti, della cultura di strada, del machismo, e forse i sociologi ci metteranno decenni prima di capire come mai i bianchi borghesi ne sono così affascinati.
Gli USA, nonostante i timori di analfabetismo dilagante, hanno sfornato tonnellate di letteratura e generato una schiera di premi Nobel, fatto che dimostra che non tutti passano quasi sette ore al giorno davanti alla televisione. Il prestigioso elenco inizia con Walt Whitman, Herman Melville, Nathaniel Hawthorne, Emily Dickinson, Henry James, Edith Wharton, e prosegue con William Faulkner, Ernest Hemingway, Scott Fitzgerald, John Steinbeck, Backpack Kerouac, Arthur Miller, i due Williams, Saul Bellow, John Updike, Toni Morisson e Richard Ford. Il peggio che si possa dire (e si dice!) della letteratura americana è che l’unico romanzo veramente importante sia ‘Le avventure di Huckleberry Finn’ di Mark Twain.
Dopo il 1945 l’attenzione mondiale, per quanto riguarda l’arte, si spostò da Parigi a New York. Gli artisti che lasciarono un’Europa devastata dalla guerra portarono nella Grande Mela le ultime esperienze del Surrealismo e ispirarono un gruppo di giovani pittori americani, come Jackson Pollock e Mark Rothko, che crearono un nuovo stile pittorico, oggi chiamato Espressionismo astratto. L’inesorabile potere della televisione e della pubblicità stimolarono la nascita dello stile più puramente americano, la Pop Art. Sono ormai simboli d’America le immagini semplici e superficiali della Lattina di zuppa Campbell di Andy Warhol o le enormi tele di fumetti di Roy Lichtenstein. Andy Warhol fu uno dei primi artisti che diventò un simbolo della cultura pop e, con i suoi capelli bianchi e le pungenti dichiarazioni sulla celebrità, divenne più facilmente riconoscibile dei suoi stessi quadri. I pittori americani sono stati pionieri nei movimenti postmoderni, come il Neoespressionismo (i ritratti emotivi di Susan Rothenberg) o il Neoastrattismo (gli inquietanti giochi di prospettiva di Elizabeth Murray).
Quando si pensa alle città americane per prima cosa vengono in mente i grattacieli, testimonianza architettonica del potere del mercato e dell’ottimismo americano. Chicago è un museo di storia del grattacielo e non è necessario conoscere la tecnica della struttura in acciaio per rimanere affascinati dal Manhattan Building, dalle torri Sears e Tribune. Anche a New York ci sono giganti di tutto rispetto, come l’amatissimo Flatiron Building; l’albero di King Kong, l’Empire State Building; il Chrysler Building in stile Art Deco. Nonostante la grande metropoli e i vasti paesaggi urbani siano invenzioni americane, oggi molte città, soprattutto Detroit sono inferni di criminalità, dai quali la borghesia scappa per rifugiarsi nei tranquilli sobborghi.
Se da una parte le città tendono a uniformarsi nell’aspetto, le zone rurali mantengono peculiarità e differenze regionali; nel New England rimangono i clapboard, in California le Spanish Mission e in New Mexico gli adobe. A Los Angeles il XXI secolo è già arrivato nello stile creativo di qualche edificio, ma ci sono anche esempi di come la ricchezza e il cattivo gusto non dovrebbero mischiarsi con l’architettura.
Negli USA gli sport si sono sviluppati senza molti contatti con gli altri paesi e di conseguenza fra quelli più popolari alcuni sono autoctoni e poco praticati altrove, come il baseball, il football americano e il basket. Il successo dei Mondiali del 1994 ha ridato al calcio un po’ di popolarità, in particolar modo tra i neoimmigrati, ma lo sport più amato dagli americani continua a essere l’hockey su ghiaccio. L’America metropolitana ha inventato anche attività che si possono praticare al chiuso, come l’aerobica, beach volley al chiuso, roccia al chiuso, tutti esempi di come i troppi soldi possano scontrarsi con una quantità di tempo libero sempre più ridotta.
La cucina americana standard viene servita dovunque in trattorie, tavole calde, bar, rosticcerie e ristoranti economici. L’insalata viene di solito proposta per prima, in diversi modi – italiana, francese, Thousand Island, blue cheese, ranch e così via. A seguire, una minestra oppure degli antipasti (starters o appetizers), come bucce di patata fritte con formaggio, ali di pollo alla griglia o pane all’aglio. Il piatto principale in genere è costituito da una delle decine di varianti che è possibile ottenere con un hamburger e un panino, di solito serviti con una montagna di patatine fritte; si possono avere anche patate al forno, schiacciate o hash browned (grattugiate e fritte). Altri piatti piuttosto comuni sono un mezzo pollo, in genere alla griglia e servito con salsa piccante; costine di maiale con salsa piccante; pesce, servito con la salsa tartara; bistecca, pollo o braciola di maiale al sugo; roast beef, tacchino o maiale arrosto serviti con sugo e/o salsa. Come dessert si possono provare la torta caramellata al cioccolato (fudge cake), le torte al formaggio, alle carote, alla samara e limetta, alle pesche e alle mele, il mud pie o la death by chocolate (morte di cioccolato).
Il caffè è molto più diffuso del tè e in genere si può scegliere tra normale e decaf (decaffeinato), con latte o panna o normale. Quando si ordina una cola viene chiesto se si preferisce una Coke (Coca Cola) o una Pepsi. Alcune bibite statunitensi sono poco note: la Dr Pepper è una specie di gassosa aromatizzata con la salsapariglia; la Mountain Dew (Rugiada di montagna) è un liquido giallo con molto zucchero e caffeina. Per avere una bibita con poche calorie e senza caffeina si può ordinare una club soda (cioè acqua di selz).
La birra venduta negli USA ha un contenuto alcolico inferiore rispetto a quella venduta nel resto del mondo. Tutti i bar hanno un’ampia scelta di superalcolici, sempre serviti con molto ghiaccio (‘on the rocks’) a meno che non li si chieda lisci (‘straight up’). Il whisky statunitense (whiskey) è chiamato bourbon se è prodotto nel Kentucky, semplicemente whiskey se proviene da un altro stato. Se si vuole un whisky scozzese bisogna chiedere uno scotch. Oggi l’America è sempre storia anticipata di una cultura che viaggia spedita, va oltre oceano, percorre nazioni, popoli, gruppi, conquista mass-media. E’ il fenomeno della mondializzazione, della globalizzazione, nelle sue varianti di sincretismi e creolizzazioni di modelli, valori ed orientamenti culturali.
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