Storia, Cultura ed Espressioni Popolari
Cultura, arte ed espressione popolare nella cucina romana e del Lazio
Storia, Cultura, Riti e Feste popolari
- La Cucina Romana: un po’ di storia
Roma, dicono in molti, è la città più bella del mondo. La sua storia secolare inizia nel VIII sec. a.C., momento della sua fondazione. Pare che i suoi primi abitanti fossero dei pastori, gente umile e rozza, che si insediarono sulla riva sinistra del Tevere, dediti per lo più all’allevamento di pecore e capre. L’agricoltura, anche se scarsa, comunque rispondeva al fabbisogno di questi primi abitanti di Roma, che grazie all’ampia presenza di zone boschive, fiumi e laghi, traevano grande profitto dalla caccia e dalla pesca.
Il territorio, come si sa, determina le coltivazioni e quindi la produzione di cibo che si ha a disposizione. Roma situata in una zona vicina al mare ha usufruito sin dal momento della sua nascita di facilitazioni nel campo di scambi commerciali e culturali.
Il porto di Ostia, quello di Gravisca (Tarquinia), il porto Tiberino situato nei pressi del grande emporio commerciale che fu il Foro Boario, furono determinanti per la crescita e lo sviluppo commerciale e sociale di Roma.
Da gente rozza e semplice i romani migliorarono considerevolmente le proprie abitudini grazie agli scambi con i popoli immigrati in territorio Laziale. Gli Etruschi, i Greci, ed altre genti dall’Oriente vollero ben allargare il mercato ai romani e non disdegnarono lunghi periodi di sosta sul territorio dell’Urbe. Gli Etruschi dal canto loro crearono una vera e propria colonia e si stanziarono in territorio laziale per ben cinque secoli, lasciando splendidi manufatti di cultura materiale.
Questi scambi attivarono il crescere e l’ampliarsi dei mercati romani che intensificarono attività commerciali con nuovi prodotti alimentari sempre più raffinati.
La Roma antica, godeva di un centro commerciale notevole rappresentato dai Mercati Traianei, sorti appunto sotto l’impero di Traiano.
I mercati Traianei costruiti alle falde del Quirinale, furono un luogo centrale per ogni sorta di scambio, commerciale e sociale. I romani dell’epoca lì acquistavano vino, olio, frumento, carne seccata, ortaggi e legumi, merce proveniente da vari magazzini del circondario.
I cibi che finivano nelle borse della spesa della gente dell’epoca erano cibi semplici. Per lo più l’alimentazione romana di epoca arcaica e repubblicana consisteva nel mangiare pane, anche raffermo, legumi, cereali, formaggio e frutta. Il vino accompagnava il pasto, anche per la prima colazione del mattino, ma era assai scadente e molto annacquato. In effetti la produzione di vino all’epoca era fatta con uve essiccate ed il prodotto che si ricavava era denso al pari di una melassa e cattivo al gusto. Per renderlo accettabile, oltre all’acqua venivano aggiunte spezie ed anche miele. Ma in seguito, grazie ai continui contatti commerciali, Roma evolve e raffina le sue conoscenze gastronomiche con nuovi alimenti, che fanno scoprire al palato sapori e gusti che non verranno mai più banditi dalla cucina romana. I cereali importati dall’Egitto venivano distribuiti anche gratuitamente sotto l’impero di Ottaviano. Tra questi, l’importazione del frumento contribuì in maniera massiccia all’uso del pane, e la polenta, fino ad allora piatto forte, comparve sempre meno sulle tavole dei commensali. Alla fine, facendo tesoro delle pratiche vinicole dei greci, anche a Roma il vino assunse un aspetto più fluido e più buono di gusto, fino ad essere definitivamente abbandonate le arcaiche pratiche di annacquamento e mistificazione con surrogati.
Il pasto più importante nell’antica Roma era la cena. Quest’abitudine era legata allo svolgersi della vita nell’Urbe. La colazione era abbondante per affrontare la giornata lavorativa, mentre il pasto era frugale e spesso consumato per strada.
Tutti terminavano il loro lavoro verso le primissime ore pomeridiane. Dopo di che, la sosta alle terme era un rito. Anche perché, le terme rappresentavano luoghi di ritrovo sociale e scambi di reciprocità e occasioni, di nuove conoscenze. Prima che il sole tramontasse, la cena era in tavola, ed essa rappresentava il pasto più ricco dal punto di vista alimentare.
Roma ha attraversato periodi di carestia alternati a periodi di opulenza. Ma, più o meno, gli alimenti che caratterizzavano la cucina dell’epoca non mancarono mai negli usi gastronomici.
Il pesce, di fiume e di mare, era molto diffuso. E diffusa nell’alimentazione era una salsa a base di pesce molto usata dagli antichi romani: il garum. La preparazione del garum era eseguita con interiora di pesce dal gusto forte, come acciughe e sgombri, lasciandole macerare nel sale con olio, vino, aceto e pepe per qualche giorno ed infine essiccata al sole per due mesi. Il prodotto dell’essiccazione, giunto ad un giusto grado di fermentazione, era poi distillato, passandolo ripetutamente attraverso setacci, fino ad ottenere una pasta morbida, dall’odore così nauseabondo che spesso si doveva correggere con miele o mosto fresco.
Beh, sarebbe da non crederci, ma se frughiamo tra gli scaffali dei nostri supermercati, esiste in barattoli di vetro una salsa di pesce, molto ma molto simile al garum degli antichi romani.
Oltre al pesce, la carne rappresentava un elemento importante nella cucina dell’epoca. I piatti di carne erano a base di maiale, il cui intestino veniva riempito con gli scarti dell’animale, a mo’ d’insaccato. Non mancavano le carni di asino selvatico, di cervo ed anche di ghiro, servito disossato e farcito, più che altro presente nei piatti della gente benestante.
La carne bovina comparve negli usi gastronomici dei romani, essenzialmente pastori, molto più tardi. Questi animali ebbero all’inizio unicamente la funzione di trainare gli aratri e i carri. Ma una volta introdotta nei menù culinari, la carne bovina venne usata per spiedini misti, grigliate, ed anche sminuzzata e composta in polpette e per preparare la, a noi nota, “luganiga” composta anche di carne bovina affumicata, oltre che di carne suina, mescolata a spezie ed odori come il cumino, il pepe, il prezzemolo o la santoreggia.
Prelibati e molto ricercati erano i piatti a base di carne di volatili. Tordi, piccioni, quaglie, cucinati nei modi più svariati, in umido e ripieni, serviti in tavola addirittura ornati dalle loro stesse piume. Ma i romani non disdegnavano di mangiare anche carni di fenicotteri, gru e cicogne ed anche pavone, importati dalle varie province dell’impero.
Chiaramente il pollo, considerata carne poco pregiata, era presente, quasi esclusivamente, nell’alimentazione dei poveri.
E sulle tavole dei poveri, frequenti erano i piatti a base di frattaglie. Le interiora venivano cedute a pochissimo prezzo perché erano gli scarti dell’animale. All’epoca non esistevano frigoriferi e purtroppo questi alimenti si deterioravano in meno che breve tempo. Questa particolarità spesso era causa di gravi infezioni intestinali senza speranza di cura efficace, per cui il più delle volte il malcapitato moriva. Ma nonostante tutto, queste pietanze, grazie all’inventiva degli osti e delle popolane romane, ancora oggi rappresentano i piatti più ricercati e non solo dai romani: pajata, trippa con mentuccia, coda alla vaccinara, zampi, codighe, gracili, testina di abbacchio e di vitella.
Per quanto riguarda gli altri alimenti, le uova erano usate come antipasto e solo dall’anno 1000 d.C. il loro uso fu incluso nella preparazione di altri piatti. Anche l’uso del burro e dell’olio, all’inizio il primo usato per unguenti e l’olio per l’illuminazione, dal medioevo assunsero proprietà più prettamente culinarie.
I formaggi, freschi e stagionati, non mancarono mai nell’alimentazione romana. E tanto meno le verdure e i cereali, che costituivano soprattutto i piatti della gente meno abbiente.
Le commistioni culinarie della cucina laziale di quell’epoca riguardano, oltre che novità adottate per scambi commerciali con popolazioni lontane, anche scambi con territori limitrofi al Lazio, come l’Abruzzo. Le minestre di ceci, fave e lenticchie cucinate con il lardo sono retaggio gastronomico della cucina abruzzese, i cui piatti tipici definiscono, ancor oggi, la stessa cucina laziale. Le zuppe e le minestre sin da quell’epoca venivano accompagnate da un tipo di pasta fatta in casa chiamata: laganum. Non si tratta altro che di pasta confezionata con acqua e farina, schiacciata come una sfoglia e tagliata a corte listarelle. I corsi e ricorsi storici sono presenti in particolar modo nelle abitudini gastronomiche: nella nostra contemporaneità non è casuale gustare un buon piatto di minestra di ceci o di fagioli o di lenticchie, magari anche cotte con le cotiche di maiale, accompagnate dalle lagane, cioè fettuccine larghe tagliate a pezzetti. E questi piatti si possono gustare in Abruzzo, nel Lazio e in buona parte del sud del meridione d’Italia.
In un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, scritto proprio in occasione di un pranzo, possiamo cogliere l’identità della cucina romana, per quel che concerne i suoi retaggi storici, tramandati nei secoli e gelosamente perpetuati nel presente.
“Er pranzo de la minente”
Mo ssenti er pranzo mio. Ris’ e ppiselli,
Allesso de vaccina e ggallinaccio,
Garofolato, trippa, stufataccio,
E un spido de sarcicce e ffeghetelli.
Poi fritto de carciofoli e ggranelli,
Certo ggnocchi da fàcce er peccataccio,
Na pizza aricressciuta de lo spaccio,
E un aggredorce de cignale e uselli.
Ce funno peperoni e sottaceto,
salame, mortadella, e caciofiore,
vino de tuttopasto e vin d’Orvieto.
Eppoi risorio del perfett’amore
Caffè e ciammelle: e t’ho lassato arreto
Certe radice da slargatte er core
Bè che importò er trattore? Co vetturino che magnò cò noi
Manco un quartin per omo: e che ce voi?
- La cucina ebraica nella gastronomia romana
La comunità ebraica di Roma è la più antica comunità del mondo occidentale. Gli ebrei romani vivono sul territorio laziale dal 161 a.C., cioè da ben XX secoli, sempre attenti a salvaguardare la loro identità di comunità coesa sia dal punto di vista religioso che culturale.
Gli ebrei romani s’insediarono non solo sul territorio dell’Urbe, ma anche nei territori limitrofi.
Una valida testimonianza è il ritrovamento della sinagoga di Ostia che si estende su una superficie di ben 850 metri quadrati e rappresenta la più grande sinagoga del mondo occidentale.
Non fu vita facile quella degli ebrei a Roma. Dovettero affrontare momenti terribili per sopravvivere, umiliazioni, emarginazioni e così via.
Dal 1555 al 1848 la vita cittadina degli ebrei romani fu recintata da un muro che delimitò una zona a loro destinata chiamata “ghetto”, con due porte che venivano chiuse al tramonto. E guai all’ebreo che veniva sorpreso fuori dal ghetto oltre l’ora del tramonto.
Nei tre secoli che gli ebrei vissero rinchiusi nel ghetto, le condizioni di vita furono deleterie e malsane. Spesso forti inondazioni del Tevere colpivano le abitazioni delle famiglie ebraiche. Solo nel 1870 con la presa di Roma, ed il crollo del potere temporale dei papi, gli ebrei uscirono dal ghetto e iniziarono a partecipare attivamente alla vita sociale ed economica della romanità.
Purtroppo con le leggi razziali indette in Italia dal fascismo nel 1938 a tutti gli ebrei furono tolti i diritti civili. La “macchina” dell’Olocausto toccò anche la tappa romana. Ben 2091 ebrei romani furono prelevati dalle loro abitazioni o “cacciati” nei luoghi pubblici, nelle strade e deportati nei campi di concentramento nazisti. L’Olocausto, la più grande orchestrazione strategica di annientamento di un popolo fu studiata dai tedeschi con minuzia a tavolino.
Finita la guerra pochi furono gli ebrei romani che riuscirono a tornare.
Oggi la comunità ebraica di Roma è sempre la più grande d’Occidente e si rappresenta con la sua distintiva identità Sefarita che si differenzia sostanzialmente dalle identità culturali delle altre comunità ebraiche sparse per il mondo. Gli usi e costumi delle comunità ebraiche sono conformi agli usi e costumi culturali del luogo che accoglie la comunità. Così gli ebrei di Roma differiscono, per usi e costumi dagli ebrei dell’Europa centro-orientale o dell’Europa dell’Est, ed anche da altri ebrei presenti sul territorio italiano in quanto hanno gioco forza assimilato modi di vivere locali.
La cucina ebraica italiana differisce da zona a zona per l’influenza della spaccatura della dorsale appenninica. A Roma la cucina ebraica presenta caratteristiche proprie acquisite fortemente dal territorio ospite.
Un’osservazione interessante potrebbe riguardare in particolar modo la preparazione dei cibi, come la scelta degli elementi da cucinare e quindi la creazione di piatti, che assumono, per sostanziali diversità culturali, considerevoli differenze all’interno delle comunità ebraiche sparse per il mondo.
A Roma vivono attualmente nella zona del centro storico più di cento famiglie di religione ebraica.
La tradizione gastronomica è asservita alla lettera dagli ebrei che rispettano i precetti della Toràh. E la cucina ebraica romana si è mantenuta fedele alla propria tradizione gastronomia .
Con una piccola escursione nella zona del ghetto scopriamo macellerie che vendono carne “Kasher” (che vuol dire “regolare”), in osservanza di quelle regole religiose e morali che, secondo gli ebrei osservanti, aiutano la serenità e la ricerca interiore.
Nella Toràh sono indicate le specie di animali permessi e quelli proibiti. Tra i quadrupedi, quelli che si possono mangiare devono avere lo zoccolo spaccato ed essere ruminanti. Gli ovini, i caprini e i bovini sono ammessi come cibo sulla tavola di un ebreo osservante. Anche gli uccelli, ma non i rapaci e neanche notturni. Riguardo i pesci, devono avere pinne e squame. Mai è consentito mangiare carne cotta nel latte: nel Pentateuco è espressamente scritto che il vitello non può cuocere nel latte della madre. Ma qualsiasi tipo di carne non può essere cotta nel latte. E vige il divieto di far consumo di latticini durante un pasto a base di carne.
Inoltre regole ben precise regolano la macellazione e la preparazione degli animali “regolari”.
La “shechitàh” è la macellazione rituale ebraica. L’animale da macello viene ucciso con un solo taglio netto di coltello affilatissimo, con un incisione dalla trachea all’esofago, da provocare la morte istantanea e la fuoruscita completa del sangue. L’animale ucciso deve essere dichiarato sano e perfetto per essere “kasher”. Dopo di che si eseguirà l’eliminazione del nervo sciatico, vietato mangiarlo, in riferimento ad un racconto della Genesi in cui Giacobbe lottò con l’angelo e ne uscì zoppo. La “purificazione” della carne, prima di essere cucinata, passa per i rituali del sale e dell’acqua, che lava completamente il sangue rimasto.
La carne così preparata viene venduta nelle macellerie ebraiche.
E’ interessante notare, aggirandosi nella cosiddetta zona romana ebraica, l’assoluta normalità dell’esistenza di questi negozi “kasher”. Questo denota il non trascurabile significato della consolidata integrazione della comunità ebraica con la popolazione romana.
Riguardo alla carne c’è da dire che le famiglie ebraiche romane ne fanno un considerevole uso, soprattutto per la preparazione di piatti tradizionali in onore di ricorrenze religiose.
Tipico è l’agnello di Pasqua in spezzatino. Un piatto che allieta le tavole ebraiche nel giorno della loro Pasqua.
La ricetta è semplice:
* 1 Kg di agnello
* Aglio in spicchi
* Limoni
* Prezzemolo
* Brodo
* Vino bianco
* Olio extra vergine d’oliva
* Sale e pepe
esecuzione:
In una casseruola capiente mettere 6 cucchiai d’olio d’oliva , due spicchi di aglio spaccati a metà. Far rosolare l’aglio fino a farlo imbiondire e toglierlo dal tegame. A fuoco vivo far rosolare e saltare l’agnello, indi aggiungere un abbondante bicchiere di vino bianco e mescolando velocemente l’agnello, salare e pepare a piacimento. Terminare la cottura aggiungendo un po’ di brodo, coprire la pietanza e continuare a cuocere il tutto a fuoco basso per buoni 40 minuti.
Questa ricetta dell’agnello di Pasqua in spezzatino è usata molto in Oriente ed anche nelle nostre regioni meridionali, proprio per i festeggiamenti della Pasqua, con una variante: l’aggiunta di uova sbattute e fatte rapprendere in padella una volta che la carne di agnello è a fine cottura. Queste similitudini nei piatti tra Oriente e cucina meridionale italiana lasciano capire che la cucina ebraica “include” elementi che appartengono in larga misura alla cucina orientale, che ritroviamo in tutto il sud dell’Italia con vari piatti gustosi e ricchi. Basta pensare all’uso dell’uva sultanina nei piatti a base di carne e di verdure.
Nella cucina romana, la ricetta de “l’agnello a spezzatino” ha riscosso ampio consenso e compare sempre nei menù dei locandieri e dei ristoratori. Chiaramente l’agnello non è “kasher”.
Come l’agnello, il successo è toccato anche ai vari piatti a base di verdura che definiscono la tradizione culinaria ebraica.
Il famoso piatto romano: “Carciofi alla giudia”, ne è un esempio.
Semplice da eseguire, questo piatto richiede una cosa fondamentale: che i carciofi siano romaneschi, ossia larghi e tozzi nei fiori, ma con le foglie tenerissime. Puliti i carciofi con un piccolo ed affilatissimo coltello, tagliando le foglie esterne in senso circolare fino ad arrivare a scoprire le foglie interne, chiare e tenere, sfilare accuratamente il gambo, facendo ben attenzione a lasciarlo intero. Immergere i carciofi puliti in acqua e limone per una diecina di minuti, una volta tirati fuori dall’acqua, asciugarli ed eseguire la cottura. L’olio extra vergine d’oliva è d’obbligo. In un tegame alto e largo, dopo aver messo quattro-cinque cucchiai d’olio ed uno spicchio d’aglio schiacciato, riscaldare l’olio facendo rosolare un po’ l’aglio. Immergere i carciofi, salati e pepati, tenendo il fiore in basso ed il gambo in alto. Soffriggere ben bene i carciofi ed aggiungere un po’ d’acqua per la cottura, quindi coprire il tutto con un coperchio affinché la cottura sia uniforme anche per i gambi. Tenere sempre d’occhio i carciofi mentre cuociono. Di solito la cottura non supera i 20 minuti. Prima di servirli in tavola con il loro gambo verso l’alto, spolverizzare i carciofi con abbondante prezzemolo tritato.
La cucina romana ha conquistato la sua fama mondiale, grazie proprio a questo piatto ebraico dei “carciofi alla giudia”.
L’uso dell’olio d’oliva è diffuso nella zona del Lazio in quanto c’è una grossa produzione. Questo uso ha influenzato la stessa cucina ebraica romana, i cui piatti sono cucinati con l’olio d’oliva.
Ma non solo per questo rinomato piatto di carciofi Roma ha una sua specifica identità culinaria. La storia della cucina romana ha nel suo menù il gustosissimo piatto de “i fiori di zucca ripieni di mozzarella e alici”, fritti in una delicata e croccante pastella, piatto richiestissimo in tutti i ristoranti della capitale. I filetti di baccalà fritti in pastella, l’indivia saltata in padella con le alicette, il fritto di cervella e carciofi, le coppiette di carne secca, sono tutti piatti che provengono direttamente dalla cucina giudaica e che la maggior parte dei buongustai ed amanti della cucina romana identifica come piatti romani e basta. Invece bisogna dire che l’identità culinaria del Lazio (perché è in tutto il Lazio che i carciofi alla giudia o i fiori farciti, ecc. sono piatti costanti di ogni cucina locale) è retaggio della secolare convivenza ebraica. Alla fine, come ogni arricchimento culturale è frutto di relazioni e scambi, i lunghi secoli di convivenza tra ebrei e romani nella città capitolina hanno prodotto importanti e decise scelte culinarie da parte degli stessi romani, che nel famoso piatto “I carciofi alla giudia” si riconoscono e si affermano come specialisti della sua esecuzione…e noi lasciamoglielo credere.
- La cucina laziale e gli scambi con le cucine confinanti
Le tradizioni culinarie sono conservative, ma non senza una sana dinamicità.
Le arti culinarie risentono, forse più di altri elementi culturali identitari, di possibili mutamenti e di contaminazioni esterne. Ed è per questo che le tradizioni culinarie sono spesso il risultato di continue novità inserite nella gastronomia locale che in seguito sono assimilate, al punto da non comparire più nella ridefinizione dell’identità culinaria locale.
La gastronomia, le sue particolarità, i suoi piatti, viaggiano e si muovono con chi li gusta e li osserva e soprattutto con chi li cucina.
Il Lazio confina con l’Abruzzo e la cucina laziale è intrisa di gusti, spezie, elementi e piatti tipici della cucina di questa terra confinante. Grazie proprio alla facilità di spostamenti da una zona all’altra e delle relazioni che si creano, si scoprono novità di piatti gustosissimi e segreti gastronomici.
Dal Lazio fare una visitina nella vicina terra d’Abruzzo è una piacevole e distensiva passeggiata.
In poco più di un’ora i monti del Gran Sasso ci accolgono in tutta la loro maestosità e bellezza.
Molti sono i laziali che dedicano gite in questi posti ricchi di parchi e bellezze naturali. E tra le tante attrazioni da tener presente nel desiderio di recarsi a visitare questa regione confinante con il Lazio c’è quella di gustare le sue prelibatezze gastronomiche locali, che molto hanno in comune con la cucina laziale.
Tra i salumi ed insaccati troviamo vari tipi di salsicce e soppressate, coppe e cotechini. Un piatto presente nella gastronomia delle due regioni è il saporito e conosciuto “salsicce con i broccoletti”. L’esecuzione del piatto è semplice: dopo aver fatto lessare i broccoletti in abbondante acqua salata e scolati al dente, si adagiano nel tegame dove in precedenza si sono fatte rosolare ben bene le salsicce di maiale e con aggiunta di olio, aglio e peperoncino si procede a far insaporire ed amalgamare il tutto a fuoco vivace per poi servirlo caldo e fumante.
Sempre con salsicce di maiale si preparano le “salsicce e fagioli”.
Negli antipasti troviamo piatti a base di acciughe (alici) crude marinate . Molto gustoso, questo antipasto si prepara con acciughe freschissime, sfilettate, asportando lische e testa. Si adagiano i filetti in un piatto da portata e si lasciano marinare in abbondante succo di limone per buone due ore. Passato questo tempo si sgocciolano e si condiscono con olio extra vergine d’oliva, aglio e prezzemolo finemente tritati.
Nei luoghi di ristorazione abruzzesi le bruschette sono presenti nei menù proprio come nei menù laziali.
Bruschetta semplice, preparata con pane casereccio strusciato con abbondante aglio e irrorato con un filo di saporito di olio extra vergine d’oliva. Bruschetta al tartufo, bruschetta ai funghi porcini, bruschetta con pomodorini freschi di stagione, crostini con tartufo, crostini con mozzarella ed alici, crostini di fegatini di pollo, costituiscono antipasti tipici, presenti in entrambi i menù, sia laziali che abruzzesi. La base, per bruschette e crostini, è costituita sempre ed inderogabilmente dall’uso del buon pane casereccio, prodotto tipico di queste due regioni confinanti.
Una tradizione simile tra le due regioni, riferendoci al tempo in cui nell’orto si raccolgono le fave dolci e profumate, è il gustosissimo piatto contadino di “Fave e Pecorino”. In tavola troneggiano i cesti colmi di fave e pezzi di pecorino stagionato, leccornia e festa per i ghiotti commensali.
Le famose pappardelle romane sono presenti anche nella gastronomia dei primi piatti abruzzesi. Pappardelle al pomodoro, ai funghi porcini, al tartufo, alla cacciatora, con pasta fatta rigorosamente a mano, servita in abbondanti porzioni, per dare inizio ad un pranzo promettente di prelibatezze.
Quando si parla di zuppe, pare che le due gastronomie, quella laziale e quella abruzzese, sorprendono non poco per la similitudine dei piatti. Si sa che zuppe e minestre sono i piatti elitari della gente che vive nelle campagne, avendo a disposizione materia prima come le diverse varietà di verdure e legumi. Ma sono piatti talmente buoni e gustosi nella loro genuinità e semplicità, ricchi di sostante nutritive importanti, che ormai sono entrati a far parte di menù di rinomati ristoranti italiani, anche consigliati dalla guida del “Gambero Rosso”.
La zuppa di castagne e ceci o semplicemente con ceci, la zuppa di cavolo, di fagioli con le lagane, di farro con finocchio e fagioli, la zuppa di lenticchie con cotechino, la zuppa semplice di legumi, la zuppa di ortiche, sono piatti tipici di un luogo, della gente di quel luogo, che si racconta attraverso i piatti della propria gastronomia che muta nel tempo, ma resta legata all’identità indiscussa della sua terra.
Tra i piatti di carne, in Abruzzo come nel Lazio, la cottura alla brace è diffusa per le carni di maiale, di bovino, agnello e capretto. La pecora ed il castrato sono molto usati per preparare saporiti ragù (come nel reatino) per condire vari tipi di pasta fatta a mano e la buona polenta allargata sulla spianatoia di legno.
Il tacchino ripieno è un piatto molto diffuso nella due gastronomie regionali. L’esecuzione della ricetta è complicata, ma non si desiste nella sua messa in opera soprattutto in occasione delle feste natalizie.
Tra i dolci, quelli che si possono definire “comuni” sono i dolci a base di ricotta, come le crostate di crema e ricotta, i ravioli dolci di ricotta e cioccolata e le crêpes di ricotta al gusto di maraschino. Le chiacchiere abruzzesi non sono altro che le rinomate frappe laziali, dolci tipici carnevaleschi per entrambe le regioni.
Anche se le maggiori contaminazioni gastronomiche il Lazio le avverte con la vicinanza alla terra d’Abruzzo, tuttavia esse non mancano anche con la confinante Umbria, da cui importa e gusta abbondantemente i prodotti di carne insaccata di maiale, quali salsicce, soppressate, pancette, e prelibati prosciutti. Le particolari lenticchie di Norcia ormai sono diventate prodotti tipici anche in terra laziale.
A questo punto, chiarezza va fatta sul famoso panpepato, dolce natalizio che costituisce un’identità indiscussa della gastronomia dolciaria romana. In realtà il “panpepato” è un dolce tipico umbro, addirittura uno dei tanti piatti simbolo dell’Umbria, che troneggia sulle tavole imbandite durante le festività natalizie.
Sono questi riscontri sulle contaminazioni gastronomiche regionali che ci inducono a riflettere sui repentini e dinamici percorsi di scambio, che sono responsabili non solo di similitudini apprese ed acquisite, ma, cosa molto importante, di continui confronti e conoscenze attraverso il linguaggio gastronomico, universale sia per il riferimento al bisogno primario del cibo e all’unicità indiscussa del suo lessico linguistico.
- Riti alimentari e cultura del maiale in Ciociaria
In varie occasioni della vita sociale si osservano comportamenti standardizzati e ripetitivi, con un preciso significato simbolico. Tali comportamenti rientrano in genere in cerimoniali, feste popolari o culti religiosi. In pratica, tutte queste manifestazioni non sono altro che forme rituali sociali, un insieme complesso e interrelato di azioni. L’identità gastronomica del Lazio conserva ancora gelosamente momenti di ritualità alimentari, legati alla tradizione agricola locale che non riesce a scomparire, anzi nonostante il mercato omologante e le mode alimentari commerciali, rimane un punto di riferimento importante.
Non si può parlare di gastronomia laziale senza far riferimento ai luoghi del basso Lazio, ovvero alla Ciociaria, luogo in cui le tradizioni culinarie ancora oggi tramandano abitudini alimentari contadine legate alla macellazione del maiale. Questo animale ha caratterizzato, nel tempo, vecchi rituali della famiglia patriarcale ciociara, che, rispettando i tempi delle stagioni dell’anno, acquistava il maialino il 10 del mese di dicembre al mercato di S. Donato o il lunedì al Foro Boario di Atina, oppure l’8 dicembre ad Alvito nel giorno della “Grande Fiera”.
La piccola bestia dopo l’acquisto veniva nutrita ed ingrassata, fino ad arrivare ad un peso giusto da macello di due quintali e mezzo, grazie ai sostanziosi pastoni a base di crusca, frutta, bucce di patate e scarti di verdura.
L’allevamento e l’ingrasso del maiale più o meno durava all’incirca dodici mesi, dopo di che si procedeva alla scannatura, inserendo, con una mossa abilissima, nella carotide della bestia un coltello affilatissimo. I maiali ciociari, ieri come oggi, sono di razza pregiata, hanno il pelo nero simile ai cinghiali, e la loro carne ha una sua particolare prelibatezza e saporosità.
L’uccisione del maiale, fa parte del misterioso ciclo delle attività agro-pastorali intessute di attese e sacrifici, nel rispetto di un codice morale proprio, che definisce il rapporto tra l’uomo e la natura, tra l’intelletto che deve prevalere sulla forza degli eventi naturali.
Il legame che intercorre tra eventi contestualizzati, in questo caso l’uccisione del maiale, e rituali di estesa socialità , è abbastanza stretto nella cultura contadina della Ciociaria . L’evento dell’uccisione del maiale è un momento che può definirsi addirittura festoso, quasi di riconciliazione e di scambio, un vivere insieme il gusto e la cucina di piatti preparati in seguito al rito della bestia ammazzata di fresco.
Questi riti di festosità sociale famigliare, hanno anche la funzione di scacciare eventuali ansie e paure, e di favorire l’avvicinamento alla materialità della vita con estrema freddezza e determinatezza. In Val di Comino, a S. Donato, vive Loreto Cedrone, ormai di vetusta età, soprannominato Mammaianna[1], che vanta al suo attivo lo scannamento di ben cinquemila maiali. A testimonianza delle sue gesta di provetto scannatore, alcune foto lo ritraggono mentre solleva la bestia appena sgozzata in segno di vittoria. Foto da considerarsi veri documenti di vita contadina vissuta tra rituali di allevamenti e uccisioni di maiali, un tempo elementi fondanti l’economia della terra della Ciociaria.
Ancora oggi in Ciociaria, la carne di maiale è l’alimento che rappresenta la sintesi tra le vecchie e le nuove abitudini gastronomiche che si ripropongono nel tempo sempre in riferimento a vecchie e stuzzicanti pietanze. Anche per quanto riguarda ricette di piatti a base di maiale e derivati, bisogna dire che il sodalizio con le regioni confinanti, in particolare l’Abruzzo ed in parte la Campania ed il Molise, è molto forte.
Scopriamo piatti che rappresentano la particolarità di un’alimentazione contadina che si basa su un buon rapporto proteico giornaliero insieme ad un giusto apporto di amidi. Ed è così che pietanze a base di buona e genuina carne di maiale trovano nel pane casereccio, di solito raffermo, cotto al forno a legna, l’unione alimentare più giusta e sana, magari con un giusto accompagnamento di verdure di campo, come la nota “misticanza” fonte preziosa di sali minerali.
Pare proprio che del maiale gli scarti siano pochissimi o quasi nulli. Addirittura, per preparazioni gastronomiche, viene usato anche il sangue della bestia appena sgozzata, che sgorga dalla carotide durante la prima sgocciolatura. Con estrema sveltezza il sangue si raccoglie in un grande tino e lo si lascia riposare per più di un’ora, fino ad ottenere un composto compatto e molliccio che si chiama “sanguinaccio”. Questo composto, dopo che si è raffreddato, si insaporisce con buccia d’arancia e mandarino, abbondante peperoncino, noci, sale, pepe bianco, aglio e finocchietto. Una volta mischiati ben bene gli ingredienti, si fa scorrere il composto nel budello del maiale come si fa per le salsicce. Quindi si lessa in acqua bollente e si mette ad essiccare in un luogo asciutto. Questa prelibatezza si mangia come salume o come companatico, oppure ripassato in padella con cipolle finemente tagliate.
In Molise è presente la stessa usanza gastronomica, con una variante: il sangue raffermo viene tagliato in grossi pezzi a forma quadrata, cotti in acqua bollente e all’occorrenza ripassati in padella con cipolla e peperoncino, pronti per la degustazione .
Il sangue del maiale serve anche per preparare il “dolce al sanguinaccio”. Sempre con il sangue ormai raffreddato del maiale, in una grande ciotola di coccio si aggiungono cioccolato fondente, vino cotto, buccia d’arancia, zucchero, latte e cannella. Questo composto si cuoce a bagnomaria, rimestando continuamente, fino alla sua giusta condensazione a mo’ di crema pasticcera. Può essere conservato in vasetti di vetro e consumato entro i tre o quattro mesi.
Del maiale in pratica non si butta quasi niente. Il grasso viene sciolto per preparare lo strutto, usato anche nella preparazione di prelibati dolci. Le sue orecchie abilmente tagliuzzate da mani di esperte cuoche, costituiscono un ottimo ingrediente per la preparazione della “zuppa alla borragine[2]”, preparata con lenticchie, coste di sedano, qualche foglia di bietola, foglie di borragine e orecchie di maiale finemente tagliuzzate.
Feste e ricorrenze identitarie e storiche
- Il Carnevale Romano
Roma ha, nella sua storia di città millenaria, il ricordo del suo carnevale che riecheggia ancor oggi per lo sfarzo e i comportamenti smodati, le notti di bagordi, i pali rocamboleschi allestiti per le vie centrali dell’urbe, Insomma, nell’antichità Roma viveva il suo carnevale in modo pieno ed assoluto. Era una festa attesa da tutta la popolazione romana. Una festa che rompeva con una quotidianità di divieti e di osservanze ad una moralità imposta dal clero.
Quindi il carnevale romano sin dalla sua nascita ha avuto una sua identità di evento forte. Un momento che possiamo definire catartico per chi vi prendeva parte, per la permissione ai vizi, ai comportamenti smodati per coloro che, nascosti dietro maschere indossate per sottrarsi alla comune realtà quotidiana, raggiungevano l’estasi del proibito permesso.
Una cosa è certa, ed è che questa festa ha origini molto antiche che risalgono alla Roma imperiale che godeva, nel solstizio d’inverno, dei Saturnali, feste orgiastiche dove tutti si divertivano e si ubriacavano.
La Festa si celebrava in onore della dea Fortuna. Fra i divertimenti popolari c’erano gare, a piedi ed in barca, ed Il Tevere era un tripudio di imbarcazioni infiorate, gremite di giovani che tracannavano vino. I romani antichi ereditarono questa festa dai greci, che praticavano queste sfrenate feste in onore del dio Dionisio o Bacco, con altrettante danze liberatorie, musiche, mascherate ed eccessi avvinazzati.
Ed anche la Roma antica, durante le festività dei Saturnali, diete avvio a rituali mascherati, esplodendo in rappresentazioni che esulavano dalla comune quotidianeità.
I Saturnali erano per i romani occasioni di grandi feste con carri, danze, caccia alle belve, che sugellavano l’ancora esistente paganesimo, ormai giunto al capolinea.
La Festa “carnevalesca” nei secoli ha continuato ad essere perpetuata dal popolo di Roma.
Agli inizi dell’epoca medioevale le classi ricche ed agiate spendevano smodate somme di denaro per foraggiare il Carnevale romano, mentre al popolo era destinato il ruolo di osservatore o concorrente nelle gare di pali. Ruolo destinato soprattutto agli ebrei, che vi partecipavano correndo nudi, insultati e derisi.
Verso la fine del Medioevo, la partecipazione al Carnevale romano si allargò anche ad alti prelati e vescovi, che aprivano le loro sontuose e ricche dimore(ornate per l’occasione con preziose opere d’arte abbellite da rinnovati lavori architettonici) alla nobiltà locale, lasciando che per tutto il tempo si organizzassero nelle loro case interminabili banchetti con musiche e danze per notti intere.
Questo vivere la festa carnevalesca era l’attesa, nella sfrenatezza dei costumi, della Quaresima, momento di divieti assoluti e di regole rigide ed inderogabili.
Ed è dal Medioevo che il Carnevale diventa una festa caratterizzata da una solennità ufficializzata regolata da statuti, avente anche una non trascurabile importanza a livello politico locale e internazionale.
La Festa divenne nel tempo sempre più un evento ufficiale di ribaltamento alla quotidianità delle regole, tanto che, nel 1464 con l’avvento al potere papale di Paolo II, pontefice veneziano, il Carnevale Romano fu caratterizzato da momenti estasianti di feste organizzate con fasti e splendori mai visti in precedenza.
Tavole immense imbandite con pietanze prelibate, servite in vasellami preziosi. Nettari di vini eccellenti venivano elargiti senza parsimonia.
Fu proprio il Papa Paolo II a dare inizio alla parata dei sontuosi carri e delle mascherate di massa che percorrevano le vie principali dell’urbe. I più prestigiosi cuochi della cucina rinascimentale preparavano cibi stravaganti e prelibati a celebrazione dell’evento più atteso dell’anno. Spesso si trattava di portate destinate unicamente per essere mostrate nella parata, come una scrofa cotta e rivestita dalla sua stessa pelle , circondata dai suoi piccoli.
Gli sfarzi del Carnevale Romano non conobbero arresti per i secoli a seguire. Balli, banchetti, smodatezze, persino orge caratterizzavano l’evento a cui accorrevano da ogni parte personalità politiche, artisti e scrittori di grande fama.
Così scriveva Goethe il 20 febbraio del 1786, mercoledì delle Ceneri:
“La mattanza è ormai finita. Ancor ier sera i moccoli innumerevoli furono un folle spettacolo. Bisogna aver veduto il Carnevale a Roma per togliersi completamente la voglia di rivederlo. Non c’è nulla da scrivere in proposito, anche se una descrizione a voce potrebbe essere gustosa.”[3]
Nel suo libro “Viaggio a Roma”, Goethe ripercorre l’ordine cronologico del Carnevale Romano che inizia con l’apertura dei teatri di Roma dopo capodanno e culmina il mercoledì delle ceneri. Sottolinea come il Carnevale si inserisca con naturalezza nello stile di vita romano, e come in fondo questa festa non sia poi tanto diversa dai divertimenti domenicali o altri giorni festivi.
Secondo Goethe persino costumi e maschere sono una visione familiare, e cita i monaci incappucciati che per tutto l’anno accompagnano i funerali.
Il Corso si trasforma nel luogo del Carnevale, la strada è il palcoscenico. Il popolo è in piedi o seduto ai lati della strada, sui marciapiedi, sui balconi, alle finestre.
Goethe descrive costumi e maschere, carri e cavalli che ogni sera corrono a conclusione della giornata. Ogni cosa, è come se fosse stata preparata per una scenografia di una prima teatrale. Maschere pullulano le strade: pulcinella, quaccheri con abiti abilmente ricamati, sbirri, marinai napoletani, contadini, donne di Frascati, apprendisti fornai tedeschi famosi per le loro sbornie. Questi personaggi somigliano a quelli della commedia dell’arte. E non dimentica l’illustre scrittore austriaco di descrivere la folle corsa dei berberi, cavalli di razza robusta ed elegante, che corrono a briglia sciolte senza cavaliere. La vigilia del mercoledì delle ceneri il Carnevale Romano ha il suo epilogo drammatico. Ciascuno tiene in mano il suo moccolo, e gridando a squarcia gola “Sia ammazzato chi non porta moccolo”, tenta di spegnere quello degli altri, cercando di impedire che venga spento il proprio.
Il Carnevale Romano comunque, nel suo disordine, libertinismo, nella sua gioia saturnale, con le sue inversioni di ruoli, i suoi gesti volgari, i suoi travestimenti, ha rappresentato per secoli l’esteriorità della gente che ne prendeva parte.
E nel contempo l’esteriorità si nutriva di un’interiorità intima. Così il corso si trasformava nel percorso della vita terrena, di cui la gente era contemporaneamente spettatore ed attore. E nella follia della festa si assaporava una libertà e un’uguaglianza che in altri periodi dell’anno non erano concesse soprattutto alla massa popolana.
[1] Questo soprannome deriva da “mamma delle ghiande”, non altro che il nome della famiglia che nella zona si è sempre occupata dell’allevamento e dell’uccisione dei maiali.
[2] La borragine è una pianta aromatica spontanea usata in cucina per la preparazione di minestre e pietanze.
[3] Goethe J. W., “Viaggio in Italia” ediz. Mondadori, 1983
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